L’obiettivo primario di questi 25 anni di difesa della produzione storica del Bitto, non era certo quello di contrastare l’ascesa del “nuovo Bitto” (quello DOP), in quanto il sistema agricolo valtellinese stava ricalcando la stessa strada di tutto il resto dell’arco alpino. Fontina, Asiago, ecc. avevano anticipato la tendenza ad usare piccole, realmente tipiche, produzioni storiche, trasformandole in grosse produzioni simil-industriali, mantenendone il nome. Quel che non era previsto è stato che congiuntamente all’aumento dei numeri si verificasse un progressivo regresso del prezzo.
Cosa significa tutto questo: è la dimostrazione che un formaggio con una reputazione storica, se non mantiene anche solo in piccola parte la propria originalità, scade a livello industriale, replicabile ovunque, trascinando l’intera filiera verso una inevitabile economia di sussistenza interamente dipendente dalle finanze pubbliche.
Non ci fosse stata la nostra resistenza casearia, il Bitto, come la Fontina, si sarebbe fatto nell’arco dell’intero anno con etichette di colori diversi a distinguere la produzione invernale dall’estiva.
L’errore descritto sopra è oggi evidenziato dal tentativo dell’Asiago di ritornare a qualificare alcune malghe verso la produzione di “Asiago Stravecchio” ben identificabile; credo che l’ispirazione venga da noi tramite la malga aderente al Presidio Slow Food. Mi risulta che questa tendenza sia in atto anche con altri formaggi (Fontina “l’Estrema”), in quanto la garanzia di protezione della DOP non è più sufficiente.
Ricordo come fosse oggi una lettera del Ministero dell’agricoltura che sottolineava “viva preoccupazione” per essere venuto a conoscenza del marchio aggiuntivo “Valli del Bitto”, concesso nell’accordo firmato nel 1996 da CTCB, Coldiretti, Comunità montana e noi, poi ribadito nel 2003 con l’aggiunta della Provincia di Sondrio. Venivamo colpiti noi che che, soli nel silenzio istituzionale, difendevamo una conclamata verità storica, e il marchio “Valli del Bitto” ci venne tolto stracciando gli accordi firmati dalle -ignare!- istituzioni locali. Slow Food intervenne su mia sollecitazione, in quanto senza differenziazioni non avrebbe avuto senso la sola dicitura “Bitto”, che metteva sullo stesso piano due produzioni sostanzialmente diverse.
In quell’occasione ricevetti una telefonata da Piero Sardo, Presidente della Fondazione Slow Food per la biodiversità, che dopo tanti anni di collaborazione si dimostra ancora con assoluta certezza principale alleato nel difendere la nostra causa, in cui mi disse che, tolta la dicitura “Valli del Bitto”, immediatamente si sarebbe creato il marchio “Bitto Storico Presidio Slow Food”, di cui l’associazione stessa si sarebbe fatta garante. Per qualche anno siamo andati avanti, come si dice da noi, de sfros, con il nome che più ci compete, perché rende giustizia alla storia, finché un bel giorno un nuovo ministro dell’agricoltura inviò una lettera a Slow Food in cui, riconoscendo la legittimità e il valore di Presìdi, trovava “eccessivamente laudativo” (sic) la parola Storico associata al Bitto. Prima, durante e poi, sembra che il problema più grave e impellente per l’agricoltura, a parere del Ministero, fosse il Bitto Storico. Il motivo credo fosse il nostro aver colpito nel segno, non essendo evidentemente abituati ad un’opposizione operata da una produzione piccolissima, ma che si era meritata l’attenzione di riviste scientifiche nazionali e internazionali (*vedi note).
Nel frattempo il MiPAF concede ai miei amici del parmigiano Reggiano l’aggiunta “Vacche Rosse”, è la denominazione aggiuntiva per noi illegale, per altre DOP diventa regolare. Altro peso, altro spessore tra il Consorzio del Parmigiano e quello di Bitto e Casera? Oppure meno accanimento nei riguardi di Catellani, ideatore del “Vacche Rosse”, rispetto a Ciapparelli eversivo perché reo di difendere l’erba di pascolo da mangimi e fermenti? Sta di fatto che oggi tutti tendono a differenziarsi per evidenziare l’originalità e la continuità di un prodotto, non per narcisismo, ma a garanzia del futuro della veridicità di un formaggio, anche a tutela dei consumatori.
“Storico Ribelle” è diventato un marchio modello per le produzioni artigianali, e per questo ha puntato il dito contro un sistema che ha bisogno di profonda revisione. Attenzione però: questo sistema ingessato è dotato di anticorpi, e pur di fare come nel “Gattopardo”, dove si cambia tutto per non cambiare niente, e ha già messo gli occhi sul marchio “Storico Ribelle” dato che ha capito, piaccia o no, che la nostra è una strategia vincente. Compito nostro è di continuare a vigilare, e di chi la pensa come noi, di sostenerci apertamente, in modo visibile.
* Un esempio su tutti: “Field Study of Relevant Cases of Success: Historical Rebel Cheese (formerly known as Historical Bitto)”, Kedge Business School.